My personal gratitude goes to all those who supported this long journey, who helped me along the way, who shared their lives, their thoughts, their personal beliefs with me. Thanks to all of you, wherever you are, for making travelling such an intense, long breath of humanity.
Moscow, August 25th, 2013
Era il 25 agosto 2013. Finivano così, all’aeroporto di Mosca, sessanta giorni di viaggio tra Tehran e Calcutta. Rimasi così colpito dall’Iran che passai il mese successivo in India a risistemare gli appunti raccolti. In un Paese in cui dare ospitalità allo straniero era e rimane illegale, non passai nemmeno una notte in albergo. Le porte aperte e le coperte sui tappeti rivelarono non solo l’ospitalità di questo popolo meraviglioso ma anche l’intima esigenza di ascoltare il mondo esterno e trasmettere il proprio.
Sarei tornato un’altra volta in Iran, quattro anni più tardi, portando a due mesi il tempo passato nella Repubblica Islamica. Ho deciso di raccogliere alcuni frammenti di quei diari, un racconto vivido nel suo impatto con la ferocia della più grande teocrazia del mondo.
Un giorno chiesi a un passante chi fosse quell’uomo dipinto sulla facciata di un edificio. Mi rispose semplicemente “dead”, morto. I muri delle città iraniane sono ricoperti di morti. Martiri della Rivoluzione, per lo più caduti nella spaventosa guerra contro l’Iraq. Sono i pilastri estetici della Repubblica islamica, che celebra sé stessa con gigantesche immagini religiose, figure politiche e allegorie sociali. Assieme, per fortuna, a molti, bellissimi murales che altro non celebrano se non il desiderio di arte.
Anti american propaganda is everywhere. Here’s the Statue of liberty dressed like an islamic terrorist, wearing a face mask and holding grenades and AK47
Tehran is not only about propaganda-like murales, hopefully
Sull’isola di Kish sono arrivato di notte, sul motoscafo di un contrabbandiere, in compagnia di tre afghani senza passaporto e quattro iraniani. Al mio fianco, in quei giorni, c’era Ashgan, un atleta di Varzesh-e pahlavānī, la lotta tradizionale iraniana. Prima di quel passaggio, avevamo trascorso un’intera giornata tra minivan e autostop, attraversando paesi di pescatori e maestri d’ascia, minareti sunniti e coste piatte come il mare del Golfo persico, arrivando al porto di Chagar sul fare della sera.
– Il resto del racconto si trova in fondo alla pagina, nel post “Kish, l’isola delle meraviglie”
Il governo. I Guardiani della Rivoluzione. I controllori all’ingresso delle università. La polizia morale. Le milizie Bajij. L’esercito. I mullah. L’intelligence. I delatori. Loro, “they” – scandiscono gli iraniani – sono l’emanazione del regime, abitanti di un non-luogo corrotto, odiato, scaltro, temibile. All’opposto ci siamo noi, altro rispetto all’autorità o i suoi rappresentanti. Tutti, qui, distinguono tra “noi” e “loro”. Perché non c’e’ lo Stato, ci sono Loro. Loro, i carcerieri. Noi, i carcerati.
Isfahan, 13 Luglio 2013
Hotel Ervin, la prigione politica di Tehran
Mi hanno impiccato due volte, ma non ho mai confessato ». Alzo lo sguardo e vedo la sua mano sospesa in aria sopra alla testa, a mimare la corda tesa che gli avvolgeva il collo. Sono a una normale festa di compleanno, sul tavolo al centro del giardino i piatti vuoti vengono rimpiazzati da nuove portate. La festeggiata, elegantissima, intrattiene gli ultimi arrivati. Non un oggetto, un particolare, una canzone che renda questo posto diverso da tanti altri nel resto del mondo. Continua a leggere
«In tutto mi hanno tenuto nel carcere di Ervin per un mese. Quando hanno visto che non volevo confessare mi hanno portato in una stanza e interrogato per ore, fino a quando non hanno emesso il verdetto. Mi hanno bendato, poi ho sentito il cappio stringersi attorno al collo, prima di fare un passo verso l’alto, sulla pedana». Era il 2009 e fuori dall’Hotel Ervin, come viene sarcasticamente chiamata la prigione politica più famosa dell’Iran, la Rivoluzione verde continuava ad invadere le strade. «Mi hanno chiesto per l’ultima volta i nomi dei miei amici, ripetendo che avevano le prove di tutto. Ho negato, e la terra sotto ai piedi è scomparsa ». Prima delle manifestazioni, Adel e altri milioni di giovani iraniani avevano cambiato il proprio profilo facebook modificando il proprio cognome in Irani, un modo per rallentare le operazioni di riconoscimento da parte della polizia. « Non ho fatto più di venti centimetri di caduta. Era una finta impiccagione ma è bastato per terrorizzarmi. Dopo un paio di settimane l’hanno rifatto. Ho pensato fosse la fine, ma non avevo nulla da confessare. Ero solo sceso in strada per chiedere che il mio voto venisse rispettato. Non avevo nulla di cui pentirmi». Tehran, 6 Luglio
Il biasimo sociale
Ricordo ancora quel giorno. Eravamo nel mercato di Tajrish, a nord di Tehran, e alcuni commercianti si rivolsero a mia madre sostenendo che io, ormai, sembravo una donna. Pochi giorni dopo toccò agli uomini della polizia morale: senza troppi giri di parole, le consigliarono di farmi indossare il velo. Avevo 13 anni”. Continua a leggere
A parlare è una cara amica, nata nella Repubblica islamica e cresciuta in una famiglia che ai precetti religiosi, prima della rivoluzione del ’79, non aveva mai dato importanza. “Quella volta mia madre rispose a tono e gli agenti preferirono non insistere. Fui invece io a chiederle di comprarmi il velo. Perché i ragazzi più grandi guardavano solo quelle con l’hijab. Perché il mondo degli adulti mi si presentava così. Perché qui solo le bambine non lo indossano.” Secondo le disposizioni coraniche, a 9 anni termina la libertà dei costumi e inizia l’età del velo.
Uno degli invitati mi sorrise e allungò la mano per presentarsi. Potevamo sentire la musica iraniana e le risate degli ospiti uscire dalla villa in cui si stava tenendo la festa. A pochi metri da noi, in piena campagna, il matrimonio era all’apice del divertimento. “Qui siamo tranquilli”, disse allungandomi una fiaschetta di whisky, “ma il timore che loro arrivino è sempre vivo”. In Iran, i matrimoni promiscui sono illegali. Lo è anche portare vestiti succinti, non indossare l’hijab, ballare e ascoltare certa musica occidentale. Qui, per milioni di persone, questi elementi della Felicità sono stati dichiarati haram, peccati religiosi
Come funziona un regime teocratico
Ramin ha un modo di fare molto accomodante, un po’ per quel tono di voce basso e poi per la risata spontanea, da ragazzo qual è, seduto alla guida della sua vecchia macchina lungo i viali arroventati di Isfahan. La questione che più gli sta a cuore è una: andarsene via, lontano da un Paese che lo fa sentire – parole sue – un fuggitivo e un codardo. Continua a leggere
Gira il volante e si infila tra le ombre di un viale alberato. Mi chiede di tirare su il finestrino, si accende una sigaretta e avvia l’aria condizionata per nascondere il fumo, attento a non beccarsi una multa per aver fumato durante il Ramadam. La sua – racconta – è un’esistenza all’ombra di un sistema che vieta, proibisce, punisce in maniera chirurgica. Nella stessa città in cui si è nati, nella strada in cui si gioca con gli amici, nella piazza dove si prende il sole. E’ una condizione schizofrenica a cui Ramin ha trovato una cura, una scusa più che altro, un diversivo rispetto alla consapevolezza opprimente di non potersi affrancare da quel posto. Il suo alibi, la sua cura, l’ha trovato in una ragazza. Una storia d’amore che gli impedisca di pensare a come fuggire dal Paese. Una giustificazione per continuare a masticare la realtà in cui e’ costretto a vivere. Per far passare i giorni, i mesi e gli anni nella stessa Repubblica che ti obbliga a vivere e a morire.
Questo meccanismo non è dissimile da quello di tante altre dittature, laiche o religiose che siano. A livello interno tutto parte da una consapevolezza: ciò che impedisce alla dittatura di implodere è l’illusione di una vita libera. Durante questi viaggi sono rimasto colpito dalla relativa facilità con cui si potesse godere di libertà illegali: accedere ai social network anche negli internet point, festeggiare di nascosto con amici e amiche, avere una relazione stabile con una ragazza non sposata, ascoltare musica occidentale a basso volume, celebrare un matrimonio laico e promiscuo in un’anonima villa di campagna, distillare del vino nelle cantine clandestine. Se godute in forma privata, tante forme di libertà illegali vengono bene o male tollerate. Continua a leggere
E, col passare degli anni, annotate, registrate, catalogate da chi sorveglia sulla società. Così che, al primo segno di ribellione, alla prima pretesa di libertà vera, il sistema presenta il conto. Non serve sparare o torturare, non subito almeno: l’universitario ribelle verrà espulso dall’ultimo anno di corso perché reo di aver partecipato qualche tempo prima ad una festa promiscua; al libero professionista che manifesta verranno bloccati i conti perché un delatore ha riferito che da anni distilla alcolici; il dipendente pubblico che ha criticato il regime verrà licenziato a causa della sua lunga e nota relazione extra coniugale. L’illusione di una vita libera diventa il ceppo a cui il regime lega i propri cittadini. Ramin l’ha capito. Ed è disperato, perché sa di non avere alternative.
Kurdistan
Un vecchio curdo osserva dall’alto la piana irachena, dove si estende una piccola parte di quella nazione non-Stato che milioni di altri compatrioti si ostinano a chiamare Kurdistan – di cui in Iran, per inciso, è vietato anche solo mostrare la bandiera. Di fronte a lui, invisibile di giorno ma brillante di notte, sta Halabja, la città bombardata con il gas da Saddam nell’88. E’ passata alla storia come il genocidio dei curdi. In questo punto, nel mezzo del venerdì sera, assieme ad altre decine di persone abbiamo mangiato e bevuto attorno ai fuochi, osservando il tramonto su quelle terre arroventate. Tra i fuochi d’artificio, i canti e i bicchieri colmi di alcolici fatti in casa, risuonava un solo brindisi: biji Kurdestan, lunga vita al Kurdistan.Continua a leggere
I curdi sono un popolo incredibilmente ospitale. Quelli iraniani vivono lungo il confine con la Turchia e soprattutto l’Iraq, che da questa vallata si estende per migliaia di chilometri verso Ovest. Da qui – raccontano i curdi con cui ho passato alcuni giorni -, durante gli otto anni di guerra contro l’odiato vicino, partivano le cannonate dell’artiglieria di Saddam. Oggi, invece, dalla strada del fondovalle i contrabbandieri fanno transitare ogni tipo di mercanzia: dalle parabole satellitari (vietate dal regime dei mullah), ai frigoriferi passando per gli impianti di condizionamento, alcool e iPhone. E’ l’economia di frontiera, è il business della guerra ed è soprattutto l’ipocrisia dei confini: chiusi agli umani, aperti al denaro.
Un giorno, in mezzo a una vallata del Kurdistan, comprai della verdura da un giovane laureato in ingegneria fisica. Stava dando una mano al padre perché da anni non riusciva a trovare un lavoro. Il 30% dei giovani iraniani risulta disoccupato. Un po’ come in Italia, solo che loro, da lì, non se ne possono andare. Lo stipendio medio è 250 USD al mese. L’Europa e gli Usa rifiutano le richieste di visto che non siano legate allo studio o al business e quelle turistiche richiedono una disponibilità economica che solo in pochissimi possono permettersi. In più, se uomini, tocca anche fare 2 anni di servizio militare. A meno che – mi raccontarono dei ragazzi al Nord – non si disponga di circa 3mila euro, la cifra necessaria a corrompere un funzionario dell’esercito per ottenere l’esenzione per motivi di salute. Quella sì, al contrario di un lavoro, si trova facilmente.
Urmia, a pink salt lake in western Iran, once the greatest of Middle East and now at 10% of its former size due to persistent general drought in Iran, the damming of the local rivers and the pumping of groundwater from the surrounding area
A kurdish village close to the valley of Marivan, iranian kurdistan
Kandovan, in north western Iran, also known the iranian Kapadokya
Tabriz, in the azeri province of Iran, is home of one of the oldest and still greatest carpet markets in Middle East, where I’ve spent three days bargaining
Alcool e mullah
Funziona cosi: o lo ordini o te lo fai. Nella prima ipotesi serve il numero di telefono di un dealer di fiducia. A Tehran si narra del re dei contrabbandieri, un tizio alla guida di un furgoncino bianco in cui conserva, in ordine di grado alcolico e prezzo, le migliori varietà trafficate ai confini con l’Armenia e l’Iraq – e poi, magari, contraffatte. Per i meno facoltosi ci sono invece i produttori interni, per lo più semplici distillatori di arak, la nostra grappa. Ma c’è anche chi, per tradizione o passione, se lo fa direttamente in casa. Continua a leggere
Tra le colline di Shiraz, dove prima della rivoluzione si produceva un vino noto in tutto il mondo, la tradizione non si è persa. In tanti nascondo le attrezzature con cui pigiare e fermentare le uve, tramandando a rischio della vita dei gesti antichi quanto quelle terre. La qualità è inevitabilmente pessima, ma la soddisfazione di brindare con loro alla vita e a costo della vita mi colpì. Nei dintorni di Tehran, invece, il vecchio e saggio Hosseini garantisce che nelle tante distillerie clandestine l’uvetta sultanina sia l’elemento più utilizzato: una volta lasciata fermentare, si va condensando la preziosa vodka lungo i canali dell’alambicco. E mentre racconta, il vecchio Hosseini spreme un lime dentro a due bicchieri, aggiunge zucchero, ghiaccio, e il famoso succo d’uvetta dal sapore sovietico. “Carlo, vodka lime“, dice con un sorriso. Ps: una delle punizioni previste per il consumo di alcolici è la fustigazione. La cosa curiosa è che l’esecutore della condanna – così mi hanno raccontato – deve fendere i suoi colpi mantenendo una copia del corano sotto all’ascella del braccio che tiene la frusta
Tehran, 7 Luglio
Come convivere con il Ramadam in una Repubblica islamica
Regola #1: Dissetarsi in pubblico non è consentito e in ogni caso non è considerato rispettoso. Se avete una bottiglia e state camminando in città, cercate una via poco visibile dove potervi dissetare senza essere visti. Alla meglio troverete qualcuno che beve, alla peggio potete sempre scusarvi, saranno comprensivi – Regola #2: Se fate attenzione ai dettagli, scoprirete che non tutti locali sono chiusi come sembrano. Cercate quelli con porte e vetrine ricoperte di pagine di giornale: è un modo per non mostrare cosa accade all’interno, secondo la consolidata abitudine del “tutti sanno basta che nessuno veda”, bibite e gelati inclusi. Regola #3: L’islam permette ai viaggiatori che sostano per meno di dieci giorni in città di poter bere e mangiare. Se vi doveste fermare di più, saltate sulla prima corriera: vi serviranno merendine e succo di frutta.
Kashan, 10 Luglio
Questo neon campeggia sull’Ebrat Museum di Tehran, uno dei paradossi più riusciti di questo Paese. Si trova all’interno di un ex carcere della Savach, la polizia segreta dello Sha, che qui incarcerava e torturava gli oppositori politici. Ovvero ciò che succede oggi agli oppositori di chi ha istituito questo museo. L’intenzione originaria di questo neon era sottolineare che la libertà non fosse “for free”, gratuita. Eppure, in un inglese corretto ma interpretabile, quel concetto e’ stato tradotto con “Freedom is not free”, la Libertà non e’ libera. Che, in fondo, è il vero significato di questo luogo.
The court (left) and the interrogation room (right) displayed in the Ebrat museum of Tehran, previously used as a jail of the secret police under the rule of Sha Reza Palavi. Is the quintessential of propaganda: a violent, oppressive regime using a museum to condemn the tortures and violences of the former regimePartying on the shores of a lake, where youngsters gather with tents, bbqs and guitars, far from the eyes of the regime
Let’s party
Verso le 5 pomeriggio mi ritrovo in macchina con Ali, diretti verso il punto d’incontro. Altri 20 ragazzi e ragazze stanno aspettando il nostro arrivo per passare la nottata in tenda sul lago. Un vecchio autobus azzurrino aspetta che tutti salgano, il motore scoppia e tossisce, la città si allontana in basso e noi saliamo su un altro pianeta. A pochi chilometri dalla partenza, le tendine della corriera vengono chiuse, le ragazze si tolgono il velo e la musica scandisce i balli tra i sedili. Continua a leggere
Guardo le colline e vedo carovane di nomadi attraversare i filari di frutteti, il segnale che il lago è vicino. Sistemiamo le tende e i teli, ammassiamo la legna per il fuoco, la musica riparte, spuntano bottiglie di vino e grappa casalinga, un quartetto si allontana con una canna. Mi invitano per un bicchiere, “noi iraniani non beviamo finche’ siamo ubriachi, ma fino a quando non finisce”, esclama gradasso un coetaneo. Ci mettiamo in circolo e giochiamo attorno al fuoco, infantili e maliziosi. La riva del lago si accende, diventa una ruota panoramica di luci colorate, una per ogni accampamento lungo le rive dello specchio d’acqua. C’è chi grida, chi ride, chi nuota, chi si apparta. La notte scivola verso il giorno e la malinconia di ciò che si perderà domattina vince su quello che si vive adesso. Le note delle chitarre si fanno più profonde, collettive, li sento cantare Leonard Cohen, un ebreo americano, e poi intonare le canzoni di Ebi, un signore che narra l’Iran ferito dalla rivoluzione. La sua voce si mangia il fuoco e le braci, le luci scompaiono, le torci nelle tende si spengono. Prima dell’alba c’e’ ancora tempo per un ultimo chai, un bacio, una carezza tra i capelli. E’ il grido isolato di questa generazione.
The crowd in the great bazaar of Tehran
Chirurgia estetica e cambio di sesso nella Repubblica islamica
Lei avrà almeno cinquant’anni, anche se fa di tutto per nasconderlo. L’altra non più di trenta. I loro nasi, invece, sono coetanei. Ogni anno centomila iraniani evocano il chirurgo plastico per i loro inestetismi. La rinoplastica va così di moda che sfoggiare il setto nasale incerottato è un atto sociale. Leggendo sul tema emerge che l’Iran sia un paradiso anche per il cambio di sesso. Lo stato aiuta finanziariamente chi vuole affrontare l’operazione e le cure ormonali che ne conseguono. Una volta che il medico certifica questa esigenza, il percorso può partire. La ragione riguarda la necessità di non lasciare vuoti burocratici nella definizione della popolazione maschile e femminile. Eppure se sei gay, o meglio, se due uomini testimoniano di averti visto copulare con una persona del tuo stesso sesso, lo Stato, semplicemente, ti impicca.
Tehran’s subway, covered with anti american propaganda. In this illustration, from the bodies of Trump and Saudi Arabia’s leader, stretches a shadow holding a rifle against the dove of peace
in the Tehran’s subway, a woman walks in front a shrine portraying the pictures of the martyrs of the Iran – Iraq war
As all public transports, also the trains of the subway are strictly divided between men and women
Skyscrapers rising in Tehran, a capital sinking under a mysterious booming real estate
A cafeteria in Tehran. An italian coffee machine “Cimbali” and the pictures of Khamenei (left) and Khomeini (right) shares the same space
Tehran, Azadi sq. Azadi in farsi means “freedom”
Amusement park in Kashan. At the entrance, the owner hanged up the portrait of a famous mullah
Di affari, polizia morale e feste capitoline
Da Est a Ovest, dove spicca la torre Milad, le luci non si fermano mai. Da Niavaran, il quartiere che si erge a Nord di Tehran, guardo in basso e ascolto Assad. Tra un sorso e l’altro di whisky, mi spiega come la morfologia del terreno corrisponda alla distribuzione sociale. La piana, enorme e sovrastata da una nube di sabbia e inquinamento, ospita la maggior parte della popolazione. Più si sale verso Nord lungo i pendii della capitale, più l’architettura, la qualità dell’aria e gli stipendi migliorano. Continua a leggere
Si versa un altro drink, si siede sul bordo del biliardo e racconta un frammento d’Iran. “L’embargo sulla tecnologia è pressante, ma ci sono modi per mettersi d’accordo. Basta conoscere le persone giuste”, prosegue, lo sguardo rivolto verso le alte torri di Elahie, il quartiere più esclusivo di Tehran. “Ad esempio, io lavoro per una multinazionale europea, alta tecnologia, ma non vedrai mai una targa della nostra compagnia sulla facciata di un palazzo, né una pubblicità che la sponsorizzi. Lavoriamo ufficiosamente, nemmeno le spedizioni sono fatte con il nome dell’azienda. Spesso sovra fatturiamo per far sì che tutto scorra senza intoppi. La Svizzera ci ha anche rilasciato un passaporto per rendere più facili i nostri spostamenti da e verso l’Iran. Lavoriamo anche con il governo, per questo le nostre conoscenze sono così vaste”. Chiedo allora se ricorrono spesso alla corruzione per oliare questa macchina. “Mh, no comment”, risponde con un sorriso, alzando le mani in aria. (Tehran, 3 luglio)
Guardando quegli occhi blu cielo e i lunghi capelli corvini non penseresti mai di parlare con una donna di cinquantotto anni. La tentazione di fregarsene delle leggi, della morale e del costume per tornare la ragazza seducente di un tempo le fa fare pazzie. Due mesi fa, le è bastata un’ordinaria camicetta con il bordo un po’ troppo alto per essere fermata dalla Polizia morale, un corpo dello Stato che vigila sull’appropriatezza del costume in pubblico. “Inadeguata, attrae lo sguardo degli uomini”, le dicono. Continua a leggere
Avrebbero anche potuto portarla in galera, e invece le due poliziotte decidono di ascoltarla: “il Corano permette di vestirsi come si vuole dopo l’inizio della menopausa. E la parola dell’illuminato non si contraddice”, risponde lei. Il confronto prosegue, le tre si studiano a lungo, decidono di andare a bere un thé. “Noi non vogliamo fare questo lavoro, non ci piace, è orribile fermare la gente così. Lo facciamo per i soldi, per vivere, per poter mettere su famiglia. Ci dispiace”. Il più delle volte le conseguenze sono ben peggiori di questa storia. Ma succede anche questo, qui a Tehran (Tehran, 4 Luglio)
Nel weekend, l’attività preferita dei giovani iraniani è girare in macchina. Un po’ perché la benzina costa un decimo che da noi, un po’ perché non esistono locali dove ascoltare musica e socializzare, e infine perché è più facile bere, fare festa, persino ballare o sedere a fianco dell’altro sesso. La macchina, insomma, rappresenta la libertà della sfera privata trasportata su suolo pubblico. Tutti i giovedì sera e i venerdì pomeriggio, i viali che attraversano le città si riempiono di macchine allegre e strombazzanti, cariche di note e grida. Continua a leggere
Alcune guidate da giovani uomini all’arrembaggio dei mezzi condotti da sole donne. Maggiore la cilindrata, più probabile il successo, come al solito. Bene che vada si ricava il numero di telefono, alla peggio si sgasa e si passa allo stop successivo. Vedo tutto questo dal finestrino dell’auto guidata da Ali, orgoglioso di mostrarmi che anche loro sanno come divertirsi. Verso mezzanotte decidiamo di fermarci in un locale sulla strada, si fanno amicizie occasionali, si scambiano numeri di telefono, si propongono feste private, si lanciano occhiate. Ali si invaghisce della barista, stabiliamo di tornare la sera successiva per conoscerla meglio ma troviamo la strada chiusa dalla polizia morale. Troppo struscio, tra quelle strade. Troppa vita per il regime.
Crossing Alburz mountains to reach the Caspian sea, a two days trekking through villages built in roman times
Persepolis
Si chiama Donesvar, “l’uomo che sa”. E’ il padrone della casa in cui ho trovato ospitalità a Shiraz, il centro dell’antica Persia. Sono diretto a Persepolis, le porte della civiltà che univa Oriente e Occidente. In cima alla scalinata che porta agli scavi archeologici svetta la coppia di tori alati con la testa di uomo che custodiscono la Porta delle Nazioni. Si calpesta la reggia che fu di Dario, Ciro e Serse, per poi immaginare le centinaia di colonne che attraversavano il luogo più protetto della Persia, la sala del Tesoro, la stessa che Alessandro Magno svuoto’ con tremila cammelli prima di dare fuoco alla città. Una vendetta, dicono, per il rogo di Atene. Continua a leggere
Piccolo appunto storico: prima di andarmene, contratto con un tassista il prezzo per raggiungere Naqsh-e-Rustam, una parete rocciosa dove e’ ancora possible vedere le tombe di Dario il Grande e Serse. E dove l’ostilità politica tra i due grandi imperi della storia prende le forme di un orgoglioso cavaliere dai lunghi e ricci capelli, scolpito nell’atto di guarda dall’alto verso il basso due piccoli uomini. Lui si chiama Shapur I e quelli ai suoi piedi, inginocchiati o catturati, sono Valeriano e Filippo l’Arabo, due imperatori romani battuti e umiliati dalle sue armate 2200 anni fa. Anche il mio tassista ha combattuto una guerra: quella tra Iran e Iraq, nel vicino 1980. E’ tra quelli che, nella “rivoluzione dei poveri” iniziata da Khomeini l’anno prima del conflitto, ancora ci crede. I due ragazzi iraniani al mio fianco lo guardano con rispetto. Ma loro, nella rivoluzione, non ci hanno mai creduto.
Bandar Abbas
Salpo per l’isola di Qeshm, la piu’ grande del Golfo persico, attraversando lo stretto di navi petroliere e mercantili che fronteggia Bandar Abbas. Questo non e’ solo il centro finanziario del paese, ma anche il principale porto di mare che unisce le due sponde del Golfo. Da qui salpano i clandestini, la droga e le merci di contrabbando dirette negli Emirati, una delle rotte legali e illegali più trafficate del mondo. Continua a leggere
In pochi chilometri, attraverso lo stretto di Hormuz, si passa dai persiani agli arabi, da sciiti a sunniti, da una teocrazia a un emirato, in qualche modo dal blocco orientale a quello occidentale. Qui tutto e’ in discussione, compreso lo stesso nome del Golfo, che gli arabi vorrebbero attribuirsi. Vado matto per le frontiere. Sul traghetto di ritorno incrocio due barche di contrabbandieri. Una motonave le precede e punta per pochi istanti il suo faro contro il nostro traghetto. Sul ponte vedo il comandante scattare in piedi e ruotare il timone, un uomo chiama al telefono dando la posizione. Gli scafi senza luce accelerano, virano verso Sud e scansano la chiglia della nave, scomparendo nel buio. “Mafia”, mi dice Ashgan, il mio compagno di viaggio.
Kish, l’isola delle meraviglie
(Riprende da inizio pagina) Al nostro arrivo contai quattro navi arrugginite affondate nella banchina, un gruppo di viandanti appoggiati ad un albero, due poliziotti in moto muniti di canna da pesca e il frutto maleodorante dei loro sforzi giornalieri. Nient’altro, tanto meno un traghetto per la nostra Kish. Dai viaggiatori scopriamo che per 200mila Rials, cinque euro circa, uno scafista sarebbe stato disposto a portarci fino all’isola. Continua a leggere
Ashgan contratta, il prezzo scende e viene fissato un appuntamento dopo il calar del sole. A prelevarci arriva una vecchia Mercedes nera su cui riusciamo a salire in 5, bagagli compresi, e condotti a fari spenti verso una caletta poco lontana dal molo principale. Tra le acque vicino agli scogli, illuminato dalla luna, rollava un fuoribordo blu scuro su cui armeggiava un vecchio lupo di mare assieme a tre ragazzi afghani. Mi giro verso Ashgan, si scopre che non ci sono giubbotti di salvataggio per tutti, parte qualche parola sopra i toni, alcuni contrattano un prezzo più basso, gli animi si tranquillizzano. Alla partenza, senza fari e in silenzio, mi accorgo di essere sull’unica imbarcazione presente in quel tratto di mare. Il capitano mi elenca le vittorie del Napoli degli ultimi vent’anni e vengo a sapere che Cavani e’ stato ceduto al Paris Saint Germain. Lui, in compenso, scopre che Ratzinger non è più papa. Ci dicono che in questa stagione gli squali emigrano in acque più fresche, qualcuno ci ride su, io mi chiedo quanto ci voglia a nuoto da una sponda all’altra. Appena le luci dell’isola si intravedono il motore scende di giri, le voci si zittiscono, ognuno raccoglie il proprio bagaglio bagnato. Mi carico lo zaino sulle spalle e scavalco il bordo della barca lanciandomi sulla sabbia di Kish, pochi secondi prima che il fuoribordo riparta verso il buio, diretta al continente. Le torri sullo sfondo ci dicono che dalla battigia dobbiamo camminare verso Nord, alla ricerca di una strada qualsiasi su cui intercettare un passaggio verso la città. I tre afghani con cui abbiamo condiviso il viaggio scompaiono subito nel buio, scortati dal proprietario di qualche ristorante verso il loro lavoro stagionale di camerieri. Intravediamo le loro tracce nella sabbia e poi più nulla.
Kish nasce negli anni ’70 grazie alla visione dello Sha Reza Pahlavi, voglioso di trasformare questa piccola isola in mezzo al Golfo Persico nel resort del divertimento mondiale. E anche dopo la rivoluzione del 1979 Kish rimane un’eccezione nel panorama iraniano: non e’ difficile vedere uomini in pantaloni corti, donne in bicicetta, veli corti, tacchi vertiginosi sotto vestiti attillati. I casino’ progettati dallo Sha esistono ancora, trasformati in centri commerciali, ristoranti e boutique di moda italiana e francese. Continua a leggere
Alcuni negozi espongono i prezzi in euro, aerei con passeggeri cinesi atterrano solo per fare shopping e tornare a casa. A Kish, sopra ad un certo reddito, non si pagano tasse. In sostanza si tratta di un enorme duty free, pensato per concorrere con il ricco vicino, Dubai.Per quanto mi riguarda, la giornata di oggi prevede ragu’ alla bolognese, scuba diving tra gli orribili frangiflutti (meno male che ho beccato lo sconto) e una chiacchierata rivelatrice con un tassista del posto, che come secondo lavoro installa piattaforme petroifere mobili. Gli chiedo con chi lavora e risponde “Schlumberger”, una compagnia franco americana di base in Texas. Mi guarda e dice “for them no embargo”, facendo aria con la mano destra. Per essere chiari: la Schlumberger, compagnia americana, paga le tasse al governo di Tehran. Che e’ sotto embargo internazionale.La sera sento Ashgan e Sahed, mi hanno comprato il biglietto per un concerto, finalmente si balla anche qui. Quando li raggiungo li trovo seduti al tavolo di un ristorante, circondati da famiglie numerose, compagnie di amici e gruppi di coppiette. Ashgan ha la faccia di un condannato ai lavori forzati, Sahed fissa il palco in fondo alla sala e aspetta che tutti i musicisti si sistemino. Li abbraccio come al solito, accenniamo con le mani alla pazzia del capitano che la sera prima ci ha traghettati sull’isola e finalmente arriva il momento di ordinare il mio primo, agognatissimo spiedone di costolette d´agnello. Darei il mignolo della mano destra per una bottiglia di Pinot nero, quel Blauburgunder che manco a Shiraz si sono mai sognati.Ecco che la musica comincia, passano le note della tradizione, le mani delle donne bandari battono l´una contro l’altra con le cinque dita aperte, quelle curde sventolano fazzoletti bianchi, le dita schioccano. Le vibrazioni scuotono la mente e il corpo, Ashgan non resiste e si alza in piedi, levando le braccia al cielo e cantando con il sorriso. Il personale del ristorante si avvicina, gli mettono le mani sulle spalle e lo invitano a sedere. Ballare é una di quelle espressioni di libertá che qui sono vietate. Non esistono pub o discoteche, le piste da ballo sono un ricordo degli anni ’70. Usciamo sulla terrazza, proviamo a muoverci sul ritmo senza farci vedere, ma anche qui il divertimento dura pochi minuti, ci bloccano e ammoniscono.Usciamo dal ristorante camminando a testa bassa verso la spiaggia, la temperatura é appena sopportabile, l’umiditá ci prosciuga a tal punto che ci svestiamo e buttiamo nel mare. Al nostro fianco delle ragazze completamente vestite sono immerse nelle onde fino alle spalle, un uomo dietro di loro ci guarda sospettoso. L’acqua é tanto salata che posso fluttuare senza muovere un muscolo, lasciando che il corpo segua la corrente. Fisso il cielo stellato sopra di me. Questo popolo non ha mai conosciuto la liberta’ (Kish, 23 Luglio)