Il mosaico di Addis Abeba

La vita ad Addis Abeba ribolle torbida e avvolgente come caffè. I farangi, i “bianchi”, affondano nel caos delle strade e delle interazioni umane, sbattono in procacciatori d’affari, tassisti, guide improvvisate, venditori di khat, ragazze in vendita, agenti di cambio al mercato nero e trattative estenuanti. Tra un sorriso e una finta promessa, i sussurri dei mendicanti mutilati e le grida dei mercanti di strada, la città s’inerpica lungo le falde del monte Entoto fino a sfociare in Piassa, la piazza edificata dagli italiani e tutt’ora uno dei quartieri centrali della capitale.

Architettura a parte, qui, “quando c’era lui”, piovevano bombe e si consumavano i crimini più atroci. Dai muri del museo di Addis pendono le immagini di quel periodo: una descrizione in inglese ricorda che “I fascisti uccisero 30mila civili durante il bombardamento della capitale”. E io non so che provare a parte un enorme imbarazzo e la sensazione di capire un po’ meglio come se la passino i tedeschi all’estero. Ci sono anche le foto delle carestie durante l’impero di Hailè Selassiè e, nel museo a fianco, si trovano gli elenchi delle persone scomparse durante il folle regime sovietico di Menghistu. Di tutta quella storia, Addis non ha dimenticato nulla: c’è la colonna della rivoluzione, con tanto di stella rossa, falce e martello; ci sono gli edifici e le chiese coloniali, il palazzo dell’imperatore e, segno del tempo, ora anche i grattacieli in vetro e acciaio adornati di idiomi cinesi. Ai loro piedi, le rare boutique condividono la strada con bar alla moda ed altri in cui l’acqua per il caffè ribolle ancora sulle braci.

La sera, nelle discoteche altolocate di Bole o nei locali popolari che affollano i dintorni di Piassa, le canzoni ahmara e tigrigna rimbombano tra le strade, le bottiglie di birra suonano a festa e le bocche tritano e schiumano verdi foglie di khat. Avvolte dalle luci soffuse dei locali o nascoste all’ombra dei marciapiedi, centinaia di ragazze attendono il loro prossimo cliente. Poco distante, isolato sotto alla luce fredda dei lampioni, il camion di un’associazione offre test gratuiti per l’HIV. È solo il primo giorno e mi sento travolto.

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