La forma della città è quella della politica

Quando le prime luci dell’alba africana filtrano dall’obló del 737 in arrivo dal Cairo, il luccichio delle baracche che circondano l’International airport di Addis Abeba lascia il posto al nero lucido della pista d’atterraggio. 140 anni fa, qui, non c’era nulla. Non una casa, un mercato, un grattacielo. Fu un’imperatrice a decidere di costruire i primi palazzi di quella che diventerà la capitale d’Etiopia. A cui, tanto potente quanto vanitosa, la regnante diede il nome di Addis Abeba, Nuovo Fiore. Di quei primi nuclei di capanne, conquistati più tardi dagli ascari del generale Graziani, oggi rimane ben poco. All’ombra di edifici moderni e scheletrici palazzi abbandonati, tra traballanti Lada e maleodoranti autobus, una parte di queste dieci milioni di vite continua tuttavia a brulicare in rifugi fatiscenti. Se si potesse tagliare con un coltello, Addis svelerebbe il profilo di un elettrocardiogramma: le linee dei bassi caseggiati in mattoni, lamiera e legno si impennano lungo il cemento armato dei palazzi in costruzione, per poi precipitare sulle teste degli operai scalzi che picconano il suolo e spalano sabbia nelle betoniere.
Lo stesso genere di umanità che, al calare delle tenebre, nelle periferie della capitale dà vita alle “moon houses”, i rifugi costruiti nottetempo per sfuggire a permessi o controlli. In centro, invece, ovunque si diriga lo sguardo si incrociano cemento e impalcature, cantieri e scavatrici. Alcuni edifici vengono addirittura svuotati di operai e lasciati incompleti, grigi alveari abbandonati ai lati delle grandi arterie cittadine, inutili. O forse, come spiega il tassista che mi accompagna in aeroporto, funzionali ad una strategia che giorno dopo giorno prende forma. Quel processo centrifugo, lento e costante che spinge le baraccopoli all’esterno, vomita la povertà umana ed economica nelle periferie, il non-luogo in cui giganteschi quartieri dormitorio privi di ogni servizio, attività, collegamenti e speranze crescono senza sosta. E famiglia dopo famiglia, ingiustizia dopo ingiustizia, circondano quella città che li ha rifiutati per farsi nuova, slanciata, moderna, illusa della sua sicurezza. Rinchiusa in un anello di umanità che, prima o poi, tornerà a reclamare la dignità perduta.