E’ arrivata la Cina

Ricordo ancora la desolazione che provai al mercato di Marivan, un piccolo villaggio curdo a ridosso della frontiera irachena, quando mi resi conto che la maggior parte delle merci esposte era made in China. L’Africa, in questo, non è seconda a nessuno. A Dabark, porta d’ingresso ai monti Simiens, la catena più alta d’Etiopia, pomodori e khat condividono lo spazio con vestiti, pentole, elettronica, casalinghi, valigie e scarpe prodotti nei distretti industriali del Dragone.

Anche la strada per arrivarci è un progetto cinese, realizzata con macchinari cinesi e operai locali. Esattamente come quella che dovrebbe unire Ganesha a Lalibela, dove a ottobre è stata presentata una petizione per interromperne la costruzione. Il motivo sembrava fondato: un muro di contenimento era crollato rendendo necessari nuovi investimenti. La risposta del governo è stata molto semplice: soldi per il progetto non ce ne sono e se i firmatari della petizione intendono proseguire finiscono in galera.

Un ingegnere che lavora con ditte di Pechino mi racconta che la qualità dei materiali utilizzati per quel tratto stradale è decente. Peccato che ogni decenza sia sparita in fase di realizzazione, dopo che appaltatore (il governo locale), realizzatore (ditta cinese) e ingegneri (etiopi) si sono spartiti i soldi della gara pubblica. E così, alle prime piogge, è possibile che le fondamenta cederanno, i ponti crolleranno, i parenti dei morti chiederanno giustizia e i politici rimbalzeranno le accuse sulle compagnie cinesi, responsabili di quella strada e della loro corruzione. Un sistema che suona molto, molto familiare.

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