Lo sguardo sul gigante dai piedi di sabbia

“Alló moní” è il suono che non ti abbandona mai. Quando i piedi lasciano l’ultimo gradino dei traballanti minibus e toccano la polvere dei villaggi, le voci e gli sguardi dei bambini si alzano ed esclamano “hallo, money!”. Nel 2011 il 33% della popolazione etiope viveva sotto la soglia di povertà. Per rendersene conto basta percorrere i 700km che da Addis Abeba portano a Nord, verso Gondar e i campi di tef. Una volta usciti dalla zona semi industrializzata della capitale, in 14 ore di viaggio si incontrano una manciata di città e una decina di paesi. Nel mezzo, centinaia di villaggi senza nome fatti di miseria e fatica, capanne in terra, paglia e legno.

Nei campi disseminati di piccoli covoni si alzano gli sbuffi del grano gettato in aria, setacciato come migliaia di anni fa. I più fortunati caricano il fieno sui muli, gli altri lo portano sulla schiena. I buoi tirano l’aratro sotto i colpi della frusta, le mani dei carbonari si colorano di un nero indelebile, le dita dei falegnami si fanno spesse di calli e spine, i palmi delle donne si spaccano sollevando i secchi dai pozzi.

Di prima mattina, davanti a pile di escrementi lasciati a seccare e recinti fatti di ramaglie, dalle porte segnate con la croce copta escono esili figure avvolte in coperte bianche. Reggono forconi in legno, corte zappe a forma di L, falcetti e bastoni. Tra di loro, intirizziti, molti bambini che ancora faticano a reggere quegli strumenti. Imberbi uomini venuti al mondo con una condanna già emessa, pronti a spingere muli e condurre capre e pecore al pascolo.


Lungo la strada compaiono anche qualche fabbrica di latticini, un paio di centrali elettriche, un deposito di tubature, un cementificio cinese e il pastificio industriale “Vera Pasta”. A pensarci bene, non ho mai nemmeno visto un trattore.

Rispondi

Scopri di più da carlo marsilli

Abbonati ora per continuare a leggere e avere accesso all'archivio completo.

Continue reading