Di guerre, aringhe e riscatto storico

C’è un detto in Islanda, dai toni sarcastici e un po’ cinici, per cui le due guerre mondiali sarebbero “benedette”. Nel momento in cui il mondo affondava nei massacri e nelle depressioni economiche, quest’isola riforniva i paesi belligeranti con tonnellate di aringhe, carne ovina e lana. La Germania, in particolare, mise gli occhi sulla produzione di olio di pesce, essenziale per produrre la glicerina alla base degli esplosivi militari. Tanto che, a guerra iniziata, americani e inglesi si impossessarono dei depositi islandesi e vi dipinsero porte e finestre per camuffarli agli occhi dell’aviazione nazista. A parte rare eccezioni, quelli furono gli anni in cui l’Islanda comparve per la prima volta sul palco della Grande Storia nelle vesti di attore.

Prima di allora, gli islandesi erano noti per fregare la bella società europea rifilando denti di narvalo per scheletri di unicorno o per resistere all’invasione delle baleniere dai Paesi baschi. Fino al XX secolo, qui essenzialmente abitava un popolo di contadini e pescatori sottoposto a potenze straniere (Norvegia e Danimarca), intriso di saghe eroiche e esseri misteriosi ma consumato dalla miseria e dalla lotta contro la Natura. Tutto questo inizió a cessare con una data e un evento ben precisi: l’8 luglio 1903, il giorno in cui arrivò un peschereccio norvegese carico di aringhe, conosciute anche come l’”oro d’Islanda”.

Pur di accaparrarsi questo pesce, gli europei per secoli si dichiararono vere e proprie guerre. Amsterdam, per capirci, si dice sia stata costruita sulle lische d’aringa. E pare sia stato un olandese il primo a metterle sotto sale. Di sicuro, furono i pescherecci olandesi a garantire i fiorini necessari alla colonizzazione di mezzo mondo. Lo stesso vale per l’impero inglese, cresciuto assieme ai volumi dei banchi d’aringa conquistati. Tanto che britannici e olandesi si presero più volte a cannonate per i diritti di pesca nel mare del Nord. Anche i regni di Norvegia e Danimarca competevano per balene, aringhe e squali – da cui, per dire, si ricavava l’olio che illuminava le strade di Copenaghen. Tutte specie che, guarda caso, abbondano nei mari d’Islanda. Quando ieri, in mezzo alla pioggia e al vento, ho visto le balene emergere dal gelo di quelle acque, ho pensato alla folle disperazione dei tanti Achab islandesi, a mollo in mezzo all’Atlantico con vestiti di lana e pelle, sorretti da barche in legno, canapa e ferro. E così fu per secoli, fino a quell’8 luglio del 1903, quando la storia d’Islanda intraprese un’altra strada.

Quel giorno, grazie a imprenditori norvegesi, iniziò la corsa all’oro. E come nel Far West, attorno ai moderni centri di lavorazione del pesce nacquero città di frontiera in cui pescatori norvegesi, danesi, inglesi e delle Faer Oer attraccavano e spendevano la loro paga in pub, balere e prostitute. La fame del mondo per l’aringa e i suoi derivati – mangimi e fertilizzanti dagli scarti di carne; dall’olio prodotti per lampade, margarina, sapone, cosmetici, medicamenti, vernici e produzioni chimiche -, gettarono le basi di un’economia che sostenne l’Islanda indipendente (1944) e arriverà nel ‘66 a generare il 36% del Pil. E un milione di tonnellate dopo l’altro, a svuotare questi mari di un anello essenziale della catena alimentare.

Ps: Oggi in Islanda ci sono 11 centri di lavorazione, capaci di processare 11mila tonnellate di pesce al giorno. Nonostante l’economia stia virando sul turismo, la pesca alla balena è ancora consentita. Quest’anno, a causa del Covid e della stagnazione della domanda, le due compagnie baleniere d’Islanda sono ferme.

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