Di tentata solitudine, consumismo romantico e China take away

In Europa, continente privo di deserti e grandi steppe, non c’è modo di percorrere centinaia di chilometri senza contare più di qualche abitazione. Quassù, invece, capita di disabituarsi alla presenza umana. Osservando i dintorni non si fa che pensare a come milioni di individui – lungo più di mille anni di colonizzazione – abbiano potuto sopravvivere senza risorse moderne (energia, medicina, edilizia, vestiti sintetici, fertilizzanti chimici, ecc..), isolati da tutti, circondati dall’imprevedibile, abbruttiti dalla consapevolezza di essere destinati a perdere in partenza nella lotta contro l’ambiente circostante. C’è un romanzo che racconta la durezza di quella vita: si intitola Gente indipendente, lo ha scritto il premio Nobel islandese Haldor Laxness e parla di una fattoria sperduta in qualche angolo d’Islanda verso la fine dell‘800. Il concetto di isolamento, oltre che tra gli stessi islandesi, si estende poi al mondo intero: Claudio Giunta (“Tutta la solitudine che meritate”, ed Quodlibet, consigliato prima di un viaggio da queste parti) ricorda che su quest’isola, a quel tempo, chi leggeva la Bibbia non sapeva come fosse fatta una mela e non capiva come fosse possibile che in così pochi giorni di pioggia l’intera Terra potesse finire allagata.

Oggi invece, nonostante i grandi spazi e le strade deserte, con le scarse conoscenze di chi arriva qui per la prima volta, risulta complicato conquistare la solitudine. E per me non è secondario: una volta all’anno la ricerco, ne sento un bisogno fisico, è la mia personalissima seduta terapeutica. Ma non è facile toccare quell’idea di Islanda che l’industria del turismo è riuscita a veicolare. Nel giro di due settimane, solo i fiordi del Nord Ovest – visti in questo momento di stasi internazionale – mi hanno dato quella sensazione. Il resto rimane sempre in equilibrio su quello che Yuval Harari chiama “consumismo romantico”, cioè l’unione tra l’idea che il semplice accumulo di esperienze in posti lontani ci renda tout court persone migliori e l’industria dei viaggi. È il marketing dei sogni preconfezionati, quegli stereotipi che vacanzieri e viaggiatori apprendono dai media, assorbono sulle guide e pretendono durante la permanenza. Il mio era la solitudine prêt à porter ma ci sono anche il vedere le balene, mangiare la vera cucina islandese, tediare i puffin, cavalcare nella terra dei vichinghi, comprare vestiti di lana. E alla fine si rischia di ritrovarsi su un ghiacciaio circondati da foresti che gridano, per lo più in ciabatte – che è un po’ come entrare in chiesa con la canottiera e ruttare. Te lo dicono da bambino, non si fa.

Questo processo, in Islanda, ha raggiunto in pochi anni lo stato dell’arte. L’apice, per come la vedo io, è aver venduto al mondo l’idea del “Paese Covid free”, un concetto ridicolo (nessuno Stato oggi ne è esente, qui è meno pericoloso che in Brasile ma si viaggia sapendo di rischiare) ma che sta funzionando in termini di afflusso – il che, come è noto, è inversamente proporzionale alla sicurezza. Con i pro (arricchimento generale) e i contro (tra cui, negli ultimi anni, diffusione di sostanze stupefacenti e prostituzione), anche qui si è infine consolidato il turismo di massa. Devo però spezzare una lancia a loro favore: nessuna delle meraviglie naturali, siano esse cascate, canion o ghiacciai, è stata recintata e messa a pagamento (a parte rare eccezioni e alcune hot pot, ma è un’altra storia). L’ho visto fare in tante parti nel mondo, qui per fortuna (per ora) no.

Esiste naturalmente dell’aneddotica su questi milioni di turisti che si accalcano davanti ai Geyser, sulle scogliere e sotto alle cascate. Io prediligo la cartellonistica (oggi ho visto “Non gettare monete nei geyser: alla natura non interessano i tuoi soldi. Se vuoi aiutare qualcuno, fallo”) ma ci sono alcune storie interessanti su tutti quei turisti finiti male perché immaginavano di essere a Disneyland. Tra queste – gli amici della Repubblica popolare non me ne vogliano – cito il cosiddetto “China take(n) away”: racconta di un ragazzo di origini cinesi che, per fotografare le onde di una spiaggia su cui era scritto di non avvicinarsi all’acqua, viene risucchiato dalla marea e sospinto tra i mulinelli vicini alla riva. Portato via, insomma.

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