Due o tre cose che non sapevo sull’Indonesia

Sull’Indonesia e i suoi 240 milioni di abitanti sapevo ben poco. Dall’arabeggiante Aceh all’ultimo villaggio della Papua ci passano 5.200km, un po’ come da Londra a Tehran. Nel mezzo si contano 17mila isole, 3 fusi orari, 360 gruppi etnici, 719 lingue e un idioma comune, il bahasa indonesiano. A parte il Corano, tutto il resto è scritto con alfabeto e numeri latini, sulle strade si guida all’inglese, i tavoli vengono apparecchiati con forchetta e cucchiaio. I pochi che bevono alcolici brindano al grido di Bersulang!


Sull’Europa non sanno molto ma una cosa gli è chiara: “Italiano bancarotta”, per citare un tizio molto sveglio incontrato a Yogyakarta. E visti i tassi di crescita indonesiani se lo può anche permettere. Eppure qui si costruiscono ancora edifici con impalcature in bambù, alle pompe di benzina il gasolio si serve in bottiglie di vetro, per centinaia di km non si vedono altro che contadini piegati su scintillanti risaie.


In pochi riescono a formulare frasi in inglese e in cucina friggono tutto in grossi wok colmi di olio annerito. In Cina e India ho visto molti dei piatti serviti in queste strade. Non a caso da lassù sono arrivati anche buddismo, induismo e Islam, prima che i coloni olandesi importassero il cristianesimo e nel giro di 3 secoli stabilissero – più o meno – i futuri confini dell’attuale Indonesia.
Bersulang

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