Il compromesso nazionale

Il compromesso è semplice: voi non vi occupate di politica, loro si intromettono il meno possibile nei vostri affari. E in effetti ai cinesi, di parlare di politica, non piace proprio. Un designer con cui ho avuto l’occasione di cenare a Shanghai si è spinto a dire che, a lui e ai suoi connazionali, del Governo non interessa nulla. Non si vota? Sai che problema.

All’origine di questo pensiero c’è la strage di Tienanmen, anno 1989. Ai piani alti del PCC fu chiaro che la botte piena del potere e la moglie ubriaca dell’obbedienza non fosse più sostenibile. A quel punto meglio aprire il rubinetto delle libertà economiche (liberismo) conquistando le pance. Lo Stato – e con esso etica e morale comuniste, più in generale ciò che è giusto e sbagliato – esce dalle case ma presidia le piazze. In cambio, esercito e potere politico non si toccano, al massimo se ne parla. Risultato: di rosso, son rimasti solo la bandiera e il partito unico.

Alcuni esempi sono la Salute (“peggio che negli USA” – dice un’insegnante di inglese riferendosi ai costi dell’assicurazione sanitaria – “e spera di non doverti operare, perché solo una percentuale delle spese è coperta”), Educazione (“gli asili privati sono i migliori ma costano 10mila ¥ all’anno, solo se sei ricco te lo puoi permettere”, aggiunge una maestra, 3mila ¥ al mese di stipendio) a cui si aggiunge il diritto alla casa (“una camera in un appartamento condiviso a Beijing costa sui 3mila ¥, una follia”, commenta un neolaureato).

Di rivoluzionario, di veramente popolare in questa Repubblica, sembra sia rimasta solo la censura. Tutto il resto – inclusa la corruzione – è business.

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