Il covid nei call center

“La scelta è tra andare a lavoro e rischiare il virus o rimanere a casa e rischiare di non mangiare”. Mentre giravo questo servizio mi sono reso conto che una parte d’Italia si è improvvisamente immedesimata negli operai di Taranto, in quello stallo cinico e infame tra il diritto al lavoro e quello alla salute. Se è vero che la frustrazione dei più si concentra sui runner della domenica, è altrettanto vero che il Paese si sta confrontando con la fragilità umana di un sistema economico che per contratto non assicura ferie, malattia, disoccupazione e indennità. Che di fronte al rischio di contagio sceglie di continuare a vendere anche il futile. Che porta milioni di italiani – in questo caso, chi ha un contratto di collaborazione in un call center – a non potersi concedere il lusso di fare i bravi cittadini e #restareacasa.
E, alla fine, tra il procurarsi la cena e il rischio di contrarre o propagare il virus, non c’è più scelta.
Da una parte c’è insomma la responsabilità dello Stato: per decreto, i call center hanno potuto continuare la loro attività fino a mercoledì scorso, nonostante fosse possibile fare tutto da casa, in telelavoro.
Dall’altra quella delle aziende: di fronte all’eventualità di un blocco delle vendite hanno opposto gli accordi commerciali. Quanto fosse necessario in questo momento riunire centinaia di persone per vendere abbonamenti televisivi e offerte telefoniche lo lascio decidere a chi legge.
E infine quella della proprietà del call center: ha taciuto la positività di Emanuele agli altri dipendenti e si è limitata a mettere in quarantena chi gli lavorava a fianco. Ha sanificato l’azienda e non ha impedito che gli operatori telefonici continuassero ad accalcarsi in quelle sale. E, per assurdo, ha seguito ciò che prescrive la legge.